Carissimi,
vi allego la versione attuale del ddl ex-Gelmini, comprendente tutti gli emendamenti (alcuni dei quali piuttosto significativi; ho riquadrato quelli secondo me piu' importanti) approvati in commissione cultura alla Camera.
Buona lettura...
Ciao, Marco
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Marco Abate Tel: +39/050/2213.230 Dipartimento di Matematica Fax: +39/050/2213.224 Universita' di Pisa Largo Pontecorvo 5 E-mail: abate@dm.unipi.it 56127 Pisa Italy Web: www.dm.unipi.it/~abate/
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Cari colleghi,
mi sembra che le riunioni delle ultime settimane non siano riuscite a fare emergere in modo chiaro le ragioni del disagio che alcuni di noi provano verso le attuali ipotesi di riforma universitaria. E' necessario confrontarci e fare chiarezza per non rischiare di subire passivamente le proteste come, nel passato, si sono subite passivamente le riforme. Nelle discussioni ci si e' concentrati prevalentemente sulla critica ai tagli, come se l'impianto della riforma andasse bene se sorretto da un adeguato finanziamento. Questa sembra d'altronde l'opinione della maggior parte dei partiti politici. E' vero che che vi sono state perplessita' e critiche (che condivido) anche verso l'ipotesi di presenza di ''esterni'' negli organi di gestione. Ma su due punti cruciali, la messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori, e la differenziazione dei salari in base alla ''produttività'', non sembrano esserci opinioni condivise anche da parte di chi si oppone alla riforma in discussione. Entrambe le ipotesi mi trovano contrario e vorrei spiegarne le ragioni, per altro ovvie e risapute, ma non sufficientemente ribadite anche in considerazione della comunicazione all'esterno.
1. Parto dalla piu' facile: la messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori e la creazione di una nuova figura di ricercatore precario. Capisco ovviamente le ragioni di chi sostiene questa ipotesi: solo con il tempo si capisce se si e' assunta una persona valida. Tuttavia lo stesso scopo potrebbe essere raggiunto dal potenziamento dei dottorati e postdottorati, e temo che i rischi derivanti dall'introduzione della nuova figura possano sopravanzare di gran lunga i supposti vantaggi. Innanzitutto, come molti hanno osservato, ci sarebbe un lungo periodo di transizione in cui vecchi e nuovi ricercatori svolgerebbero funzioni simili trovandosi pero' in una situazione di competizione ad armi impari : dovendo al termine dei sei anni scegliere se promuovere un ricercatore precario che altrimenti uscirebbe di scena, o un ricercatore vecchio tipo che in ogni caso rimarrebbe al suo posto, la scelta risulterebbe condizionata da considerazioni non basate esclusivamente sul merito. Aggiustamenti legislativi di questo o quel governo per controbilanciare o sanare la situazione rischierebbero di provocare ulteriori danni (ope legis). A causa della situazione demografica del nostro corpo docente, nel periodo transitorio molti ordinari andrebbero in pensione e l'insegnamento universitario si troverebbe progressivamente affidato in misura sempre maggiore a personale precario presumibilmente privo dello stato giuridico di docente. Una situazione che oggettivamente rischia di indebolire e impoverire l'universita' nel suo complesso. Inoltre, soprattutto nei settori in cui il merito non e' altrettanto facilmente quantificabile di quanto avviene in matematica (penso ad esempio alle facolta' umanistiche, all'architettura, alla medicina), il ricercatore precario si troverebbe sottoposto ad un forte condizionamento che limiterebbe la sua liberta' di ricerca, spingendolo a seguire e assecondare linee di ricerca e valutazioni altrui al fine di massimizzare le sue possibilita' di inserimento stabile. Ci sarebbe anche un accresciuto rischio di fenomeni di malcostume, in cui il ricercatore precario si potrebbe trovare indotto (come gia' in alcuni casi avviene) ad accettare che il suo lavoro venga firmato, senza alcun merito, da chi sta sopra di lui nella gerarchia accademica. D'altra parte i ''baroni'' sarebbero incentivati a peccare in questo senso dalla mania della produttivita' a tutti i costi, e dall'ipotesi di legare la produttivita' al salario. E qui mi ricollego al secondo punto.
2. Differenziazione dei salari in base alla produttivita' . E' chiaro che il merito va premiato. Ci sono a tale scopo i finanziamenti ai progetti di ricerca. Ritengo invece inutile e dannosa la differenziazione dei salari. Innanzitutto in tale ipotesi ingenti risorse umane verrebbero trasferite dalla ''produzione'' al ''controllo della produttività'', con immediata ricaduta negativa sulla produttività stessa. La creazione di docenti di serie A e B in base al salario sarebbe fonte di conflittualita' e divisione che indebolirebbe ancora una volta l'universita'. Ci sarebbe poi ovviamente il problema di come effettuare le valutazioni. Criteri bibliometrici tipo ''impact factor'', sarebbero la soluzione meno dispendiosa, ma avrebbero un effetto omologante sulla ricerca orientandola verso una produttivita' finalizzata unicamente al raggiungimento di ''punti'' in base ai criteri scelti. Un docente che decidesse di dedicare del tempo alla redazione di manuali di buona qualita', oppure a condurre una ricerca interdisciplinare che non rientra esattamente nei criteri, o semplicemente decidesse per qualsiasi motivo di non pubblicare su certe riviste (magari per spirito nazionalistico, privilegiando quelle italiane), potrebbe essere penalizzato. Sono certo che i maniaci del controllo escogitrebbero mille migliorie per tener conto di tutti i casi possibili e immaginabili. Ne risulterebbero dei criteri piu' complicati della nostra legge elettorale (vedi http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Calderoli#Schema_logico) , ma la sostanza non cambierebbe. Inutile dire che criteri basati sulla lettura dei lavori sarebbero impraticabili, non fosse altro che per il fatto che in questo clima potremmo non essere piu' interessati a leggere i lavori altrui se non per trarne un beneficio personale (scopiazzarne le idee). Restano gli esperti stranieri, ma non proseguo per non tediarvi ulteriormente. Concedo comunque che in matematica i criteri bibliometrici potrebbero avere una certa attendibilita', pur con i limiti evidenziati, in quanto nel nostro settore c'e' una diffusa concordanza su quali siano le riviste buone e i matematici autorevoli. Ma in altri settori (e penso alle discipline umanistiche, all'architettura, alla medicina) sicuramente non e' cosi'. Basti pensare alle difficolta' che la nostra commissione valutazione ha nel valutare i lavori in didattica o storia della matematica. Semplicemente, in molte realta' accademiche, chi decide i criteri accrescerebbe il proprio potere. Mi si obietta che negli Stati Uniti la ricerca funziona e i salari sono differenziati. Rispondo che innanzitutto alcune delle storture sopra descritte le ritrovo in quel mondo accademico, e poi che le condizioni sono del tutto diverse: ad esempio negli Stati Uniti esiste una reale autonomia delle universita' e nessuno si sognerebbe, con una decisione del governo centrale, di formare delle commissioni giudicatrici per sorteggio.
3. Per concludere, alcuni dei mali (certamente non tutti) che io vedo nell'universita' italiana, sono individuabili nella progressiva limitazione degli spazi di democrazia, di autonomia, e di liberta' di ricerca, e mi sembra che le riforme che si prospettano (come quelle passate) vadano tutte nella direzione peggiorativa.
Mi scuso per la lungaggine e finisco con una proposta costruttiva: perche', in nome dell'autonomia, non si permette alle singole universita' di mettere a bando un posto di ''matematica'' svincolato dai settori, magari con una indicazione degli impegni didattici da assumere?
Alessandro Berarducci