Cari tutti, sto seguendo il dibattito che si sta sviluppando per posta elettronica, con il forzato distacco dovuto alla mia assenza da Pisa in queste settimane. Dico subito che mi sta facendo una buona impressione; mi sembra che tutti gli intervenuti cerchino veramente di contribuire alla definizione di proposte per migliorare concretamente la situazione, senza inutili eccessi polemici.
Provo ad inserirmi nella discussione.
(1) Una conseguenza positiva di queste intense settimane di iniziative suscitate dalla 133 e' avere posto i problemi dell'Universita' al centro dell'attenzione. Tutti i problemi. Vedo il rischio che invece il corpo docente concentri la sua attenzione quasi esclusivamente sulle procedure di reclutamento, cioe' sulla propria riproduzione (come purtroppo e' successo spesso in passato), preoccupandosi anche di ottenere un po' piu' di risorse piu' che altro per quello scopo. Naturalmente, il reclutamento di forze nuove in misura significativa e mediante procedure che premino la qualita' (contenendo il malaffare) e' un punto cruciale; ma non indipendente da altri. Per esempio, avere piu' professori (anche buoni) non significa automaticamente avere piu' (buona) didattica. Occorrono anche laboratori, aule, manutenzione sistematica delle attrezzature ecc. Un Ateneo (diciamo Pisa), e quindi anche l'insieme dei suoi docenti, soprattutto sotto la minaccia di un ridimensionamento economico radicale, non possono rilanciare le proprie buone ragioni senza una rappresentazione complessiva e onesta della situazione presente, e del proprio progetto (indicando per esempio le situazioni dove investire in un laboratorio per gli studenti e' prioritario rispetto al reclutamento di nuovo personale, o viceversa).
(2) Credo che la semplice opposizione (reclutamento) "locale vs nazionale" sia un po' fuorviante. Come sappiamo tutti, quello che ha reso micidiale la fase piu' recente dei concorsi (soprattutto per quanto riguarda ordinari e associati) e' stata la combinazione tra la produzione di terne di idonei e il meccanismo budgettario/autonomistico, per cui la "promozione" di un locale costava meno. Era facile prevedere (anche essendo molto ingenui) che questo, di norma, avrebbe portato quasi esclusivamente a promozioni locali. Cosi' e' stato. E cosi' fu fortemente voluto dalla maggioranza del corpo accademico. Ricordo per esempio che all'origine la proposta Berlinguer combinava la decentralizzazione dei concorsi con la proibizione a concorrere nella sede di provenienza. Il rigetto del corpo accademico fu ampio e immediato. D'altra parte, per quanto riguarda i ricercatori, almeno per MAT03, conosco applicazioni virtuose del concorso locale, che hanno prodotto alcune tra le poche occasioni di mobilita' di questi ultimi anni.
(3) Almeno in Italia (ma non credo solo qui) potrebbe valere la regola empirica per cui, dato un qualsiasi sistema di reclutamento (locale, nazionale, elezione, sorteggio ...), la sua applicazione per un tempo abbastanza lungo, progressivamente esalta fino a renderli consuetudini, i modi per ottenerne i risultati peggiori possibili. Se questo e' vero, puo' anche darsi che un cambiamento periodico delle procedure (i famosi "segni di discontinuita'") possa avere di suo un effetto positivo, almeno perche' interrompe gli automatismi di quelle consuetudini. I difetti e i rischi che i vari intervenuti vedono i quella o quell'altra proposta, probabilmente si realizzeranno senz'altro dopo un po', secondo la regola.
(4) Quando si parla di concorsi ci muoviamo tra due estremi ideali:
(a) Tutto si basa sulla "responsabilita'" dei commissari che scelgono secondo scienza e coscienza, e con trasparenza delle scelte. Di queste si rende conto alla comunita' (scientifica e in senso lato), mettendo soprattuto in gioco la propria "reputazione".
(b) Le scelte sono rese tendenzialmente automatiche mediante l'uso di criteri (indicatori) oggettivi. La trasparenza riguarda la determinazione di questi criteri; le scelte sono poi deresponsabilizzate.
Il funzionamento di a) dipende molto da cosa sia fatta la reputazione di qualcuno e questo ha molto a che fare con la "civilta'" complessiva del contesto. Se la massima reputazione e' data, per esempio, dal disporre di un potere discrezionale, per cui si puo' fare senatore, o ministro o professore il proprio cavallo, allora .... Pero' in un mondo ideale potrebbe funzionare. Penso invece che b) abbia dei difetti che persisterebbero anche (forse a maggior ragione) in un mondo ideale. Nella situazione presente credo che limitare l'uso degli indicatori alla determinazione di condizioni minime calibrate (vedi la proposta di Marco) sia la cosa migliore. La componente "responsabilita'" mi sembra inevitabile. Tra l'altro, generalizzando quanto diceva Carlo, con la diffusione degli archivi elettronici, c'e' una discrepanza sempre piu' ampia nei tempi tra, da una parte, la diffusione e l'eventuale riconosciuta importanza di risultati nuovi, dall'altra la pubblicazione finale su rivista che costituisce spesso l'ultimo atto di un processo.
Boh, mi rendo conto di essere gia' stato fin troppo lungo. Per ora mi fermo.
Ciao
Riccardo
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