Cari amici,
fatemi dire prima di tutto che quando alcuni colleghi mi hanno segnalato a suo tempo questa iniziativa, ho esitato un po' ad aderire, soprattutto per l'impegno a dimettersi dalle cariche accademiche, convincendomi poi a farlo lo stesso solo perché in questo periodo non rivesto alcuna carica da cui dimettermi... La mia perplessità, corroborata ora dalle ultime discussioni che si sono sviluppate in questo forum, derivava soprattutto dall'esperienza fatta due anni fa, come presidente del Consiglio di area didattica di Fisica, quando la precedente agitazione dei ricercatori aveva messo in forse lo svolgimento dell'anno accademico con forme di lotta molto simili a quelle attuali. TUTTI i presidenti in carica dei consigli di area didattica della Facoltà di Scienze della Sapienza, me compreso, si erano dimessi per protesta contro lo stato dell'Università pubblica. Il preside accolse oralmente le nostre dimissioni scritte, ricordandoci peraltro che eravamo tenuti a portare avanti tutti gli atti di ordinaria gestione dei consigli (ossia tutto, perché non è che nei consigli si faccia molto altro oltre a gestire l'ordinaria amministrazione). Nessun altro seguito ebbe la nostra iniziativa, ed io ho completato l'anno dopo il mio mandato alla sua scadenza naturale, avvicendandomi con un collega, senza che nessuno si sia preso la briga di prendere atto in qualche modo della nostra protesta.
A questo punto, tuttavia, più che le modalità della attuale protesta, sono sempre più perplesso dalla apparente confusione sugli obiettivi: credo che se non sono chiari gli obiettivi di una lotta, le possibilità di portarla avanti con qualche speranza di successo siano praticamente pari a zero.
L'eco, peraltro non molto sonoro, che giunge all'opinione pubblica e agli studenti, sembra indicare che l'obiettivo della protesta del mondo universitario sia il ddl Gelmini sull'Università. Ora non c'è dubbio che il traino della protesta sia costituito da alcune organizzazioni dei ricercatori, e che le loro rivendicazioni, che io giudico assolutamente legittime ma al tempo stesso piuttosto corporative, abbiano come obiettivo il ddl Gelmini ed in particolare il trattamento in esso riservato agli attuali ricercatori a tempo indeterminato.
Ma il resto dell'Università? dovremo forse pensare che se cade il ddl Gelmini (come per qualche momento è sembrato possibile nei giorni scorsi con la sua calendarizzazione) abbiamo vinto la nostra battaglia e possiamo tornare contenti alle nostre solite occupazioni?
Io condivido pienamente quanto dice Procesi, "il ddl Gelmini non è questa grande rivoluzione" ma, aggiungo, non è neanche questo gran danno, e forse a questo punto sarebbe ancora più dannoso il suo affossamento. "Il vero punto è sulle risorse... insomma della quota del PIL dedicata alla Università e ricerca" Io credo che dovremmo avere il coraggio di dire che qualunque ministro o governo che accettasse di mettere sul piatto un sostanziale aumento di queste risorse rispetto al passato (non già una parziale riduzione dei tagli, il "piatto di lenticchie" che chiedono i rettori ed altri soggetti in questi giorni) potrebbe avere carta bianca su governance, carriere, stato giuridico e obblighi per i docenti. Perché il vero obiettivo dei nemici dell'Università pubblica, mascherato dietro l'efficientismo aziendalistico, la meritocrazia, la competizione, ecc., è quello di strangolare il sistema dell'istruzione e della ricerca pubblica attraverso la continua riduzione dei fondi. E questo obbiettivo a me pare sempre più pericolosamente vicino!
E allora, si può fare qualcosa? All'inizio dell'estate io avevo avanzato una proposta alla mia facoltà, con la speranza che potesse essere fatta propria almeno da tutte le facoltà di Scienze: da una parte dichiarare che tutti i corsi della facoltà sarebbero partiti in regola con tutto il corpo docente impegnato a farsi carico al completo della nostra variegata offerta didattica, dall'altra compilare la tabelle informatiche che il ministero utilizza per l'accreditamento dei corsi basandosi esclusivamente sugli obblighi minimi di legge (un solo corso per associati ed ordinari, nessuno per i ricercatori) In questo modo nessun corso della nostra Facoltà avrebbe soddisfatto i requisiti minimi, e a questo punto stava al ministro la responsabilità di dichiarare non validi alcuni dei più prestigiosi corsi della nostra disastrata ma non ancora smantellata Università, o, in alternativa riconoscere che l'insieme delle normative (tutte di responsabilità politica, purtroppo di vario colore) che regolano i corsi unversitari e gli obblighi dei docenti costituisce ormai una maionese impazzita. La mia proposta, a parte la scontata opposizione dei ricercatori organizzati, è caduta nel vuoto ed il risultato è che attualmente tutti i corsi della Facoltà di Scienze della Sapienza sono stati rimandati di tre settimane, nella speranza che dal primo al 18 ottobre qualche miracolo (che nessuno però è in grado nemmeno di profetare) permetta di far partire l'anno accademico con un minimo di regolarità.
Ora si prospetta però un'altra occasione: il ministro (forse approfittando dello stato di confusione generale in cui versa il mondo universitario) ha pensato bene di emanare il DM 17, che rende operativa la famigerata circolare 160. Questo decreto, introducendo una nuova serie di cervellotici requisiti sulla struttura dei corsi di laurea, concepito come tutti i precedenti nel chiuso delle stanze del ministero, senza consultare (o peggio ignorando i pareri espressi, vedi sotto) le parti interessate, costringe a mettere mano ancora una volta agli ordinamenti, che in alcuni casi sarebbero stravolti, e cosituirebbe probabilmente il colpo di grazia ad un sistema ormai alle corde.
Una volta tanto il CUN ha reagito con prontezza e durezza, vedi http://www.cun.it/media/105926/mo_2010_10_06.pdf ribadendo il parere estremamente negativo già espresso sulla circolare 160.
Potremo cogliere l'occasione per opporci con forza a questa ulteriore vessazione, chiedendo a tutti i colleghi investiti di qualche responsabilità, dai rettori ai presidi ai presidenti dei consigli didattici, dimissionari o meno ;-), di rifutarsi pubblicamente di applicare il nuovo DM. Anche in questo caso, si tratterebbe di rilanciare al ministro la responsabilità di negare, in maniera indiscriminata, l'accreditamento a centinaia di corsi di laurea o risolversi una buona volta a mettersi all'ascolto di tutti gli stakeholders, tra i quali spero metterà anche noi docenti e non solo l'ufficio-studi di Confindustria (non lo farà, ma attenzione, nel caso dovremmo prepararci a dire "sì, sì, no, no, che il di più viene dal maligno")
Scusandomi per questa lunga esternazione, saluto tutti caramente.
Egidio Longo ____________________________________
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