At 08:14 +0200 03.06.2009, Alberto Lusiani wrote:
Caro Maurizio,
2009/6/3 Maurizio Tirassa maurizio.tirassa@tele2.it:
At 15:36 +0200 02.06.2009, Francesco Antonio Gianturco wrote:
...Università dell'Europa non-mediterranea, dove risulta quasi impossibile essere promossi a full professor nel luogo in cui si lavora già.
E' banale dirlo, ma una parte non piccola delle ragioni per le quali molti accademici italiani hanno avuto progressioni di carriera in sede era meramente economica: l'ateneo doveva sborsare solo la differenza tra lo stipendio della fascia precedente (con, si presume, almeno un po' di anzianità) e quello della fascia nuova (con, almeno inizialmente, zero anzianità). Così, se passavi ordinario nella sede presso la quale eri già associato, o associato nella stessa sede presso la quale eri ricercatore, l'ateneo doveva tirar fuori poco o nullo denaro. Il budget
Ritengo che questa motivazione economica sia totalmente insussistente e che la vera motivazione della promozione locale sia una combinazione del naturale localismo / nepotismo italiano con la struttura elettiva degli organi direttivi dell'universita'.
Se un'universita' ha x ordinari, y associati e z ricercatori di data' anzianita', paga in stipendi ESATTAMENTE la stessa cifra sia che li abbia reclutati e promossi tra i locali sia che li abbia reclutati dal resto d'Italia e del mondo. Anzi, se li ha assunti da sedi esterne, paga almeno inizialmente meno per effetti dei vari incentivi statali.
Il confronto tra promozione interna di un ordinario con costo uguale alla differenza tra stipendi rispetto ad associato e assunzione dall'esterno di un ordinario con costo pari al suo sitpendio e' semplicemente bacato, perche' nel caso della promozione interna l'Universita' ha +1 ordinari e -1 associati, nell'altro caso +1 ordinari solamente, e i costi non possono che essere diversi.
(Scusate la lunghezza della citazione)
Rimango dell'idea che il mio ragionamento non sia così strampalato. Se a una facoltà vengono assegnati, per dire, 4 punti organico, con una strategia di reclutamento verso l'esterno può reclutare:
- un ordinario esterno e un ricercatore (3 + 1), oppure - due associati esterni (2 + 2), oppure - un associato esterno e due ricercatori (2 + 1 + 1), oppure - quattro ricercatori (1 + 1 + 1 + 1).
Con una strategia mista, che è quella che ho sempre visto adottare in condizioni normali, può fare ad esempio uno slittamento a ordinario e uno slittamento ad associato (o due a ordinario o due ad associato) e reclutare due ricercatori (1 + 1 + 2). In questo caso l'aumento netto è di sole due unità di personale: questo però spesso è più che sufficiente, e comunque anche nella strategia esterna non è affatto ovvio, anzi è assai improbabile che verrebbero reclutati quattro ricercatori.
La strategia interna o mista offre i vantaggi supplementari di permettere qualche promozione interna, di mantenere un ragionevole equilibrio tra le fasce e le carriere, e di reclutare solo personale giovane (per lo più cresciuto in sede, ovviamente, e quindi "inbred" ma anche ben conosciuto e apprezzato -- teniamo conto che si tratta di gente che rimane in servizio per 35 anni: è legittimo voler sapere con certezza "chi ci si mette in casa").
Stando così le cose, cosa dovrebbe spingere una facoltà ad adottare regolarmente una strategia di reclutamento esterno? L'apporto di aria fresca è certamente desiderabile, ma non fino al punto di distruggere le carriere interne. A meno di dare per scontato che il personale esterno sia necessariamente e intrinsecamente migliore di quello interno, ma non vedo ragione di farlo.
Una facoltà che adotti una strategia di reclutamento esterno avrebbe anche il problema che se questa politica fosse adottata da tutte le altre analoghe facoltà della nazione, il proprio personale interno avrebbe chance di carriera andando altrove, ma, se le altre facoltà adottano invece una strategia di carriere interne, il proprio personale rimarrebbe inchiodato in eterno nelle posizioni basse. Credo che qualche esperto di teoria dei giochi possa spiegare il punto meglio di me.
Aggiungerei che non trovo nulla di sconveniente nell'idea che un accademico faccia carriera -- siamo professionisti come gli altri, anzi, siamo pagati peggio degli altri: perché non dovremmo desiderare di salire di qualche scalino? Aggiungerei ancora che, come diceva Guido Rossi quest'oggi, con gli stipendi che ci ritroviamo cambiare città può essere un vero problema sul piano personale (io, come dicevo, ho girato parecchio nella prima fase di carriera, ma infatti sono single, e non particolarmente felice di esserlo).
Se c'è un errore in questi ragionamenti, mi sfugge. Non sto dicendo che quella delle carriere interne sia una soluzione intrinsecamente desiderabile, né che conduca a una massimizzazione della produttività scientifica. Non è così. Dico solo che è razionale adottarla, in un quadro generale che non è razionale. Inoltre, come dicevo, non è neppure intrinsecamente e necessariamente sconveniente.
Se poi nel mio ragionamento ci fosse un errore, vorrei che venisse comunque sostituito da un altro ragionamento di tipo altrettanto razionale, di causa-effetto. Se la spiegazione dei malfunzionamenti del nostro sistema universitario è
la naturale propensione di partenza presente in Italia... il naturale localismo / nepotismo italiano
cioè se il problema è nella nostra "natura" di italiani, allora dobbiamo parlare o con Cesare Lombroso o con un ingenere genetico in stile Blade Runner, che ci riprogetti da capo a piedi. Entrambe le strade sono poco percorribili. Preferisco pensare che le azioni umane abbiano una causa almeno un po' razionale, e che quindi si possa ottenere qualche risultato intervenendo sulle cause, modificando le situazioni di partenza.
Cordialmente,
- Maurizio Tirassa