Concordo pienamente con Alessio. Non a caso il mio messaggio con la lattera aveva un incipt sarcastico. Questi colleghi stanno aggiungendo entropia con idee che vogliono riportare l'università indietro nel tempo.
Sono idee contagiose perchè di fronte al degrado generale è più facile guardarsi indietro piuttosto che avere il coraggio di affrontare il nuovo. Scusate la ripetizione: l'immagine del degrado a tutto campo che va dalle finte regole concorsuali ai fondi di ricerca disturba quanti hanno a cuore l'università, certamente non quelli che continuano ad usarla come strumento di affermazione personale e di potere, questi ultimi hanno un pelo coriaceo sullo stomaco e sono ai vertici.
Walter Lacarbonara
Il giorno 30/gen/12, alle ore 16:31, Alessio Papini ha scritto:
Ho notato che il soggetto erano gli USA, ma credo che i colleghi abbiano comunque voluto attribuire colpe a ambiti tecnico-culturali ben precisi (scientifici, in sostanza), come ben si capisce dal resto della lettera. Mentre, a quanto pare, una nuova età dell'oro sarebbe possibile se ci basassimo di più sulle scienze umanistiche, la produttività delle quali sarebbe inverificabile. Pur con il massimo rispetto verso le scienze umanistiche ho qualche difficoltà a seguire questa linea di opinione. Se poi proprio vogliamo polemizzare, le attuali politiche di disciplina del mercato, il controllo della finanza pubblica, la gestione delle relazioni internazionali non mi pare proprio abbiano nulla a che vedere con informatica, genetica (o fisica, chimica, matematica ecc.) in modo diretto, ma semmai proprio con filosofie politiche nate in ambiti strettamente umanistici. Del resto molte di queste politiche si basano ormai proprio sulle conoscenze scientifiche, quindi a rischio di autosmentirmi, temo non sia possibile dividere in buoni e cattivi a seconda dell'ambito disciplinare. E neppure in valutabili e invalutabili. Saluti Alessio Papini
On 01/30/2012 01:51 PM, Piero Lattanzi wrote:
se guardi bene, il soggetto della frase sono gli USA, e non le tecnoscienze.... cmq trovo anch'io che il documento dei colleghi, accanto ad affermazioni pienamente e totalmente condivisibili, ne contenga altre che mi lasciano perplesso esempio: nella mia personale esperienza il fallimento dell'ordinamento 3+2 è in buona parte dovuto all'incapacità dei docenti (me compreso) di adeguarsi, rinnovando modi e contenuti della didattica PL
From: "Alessio Papini" alessio.papini@unifi.it Sent: Monday, January 30, 2012 1:21 PM To: ""Forum "Università e Ricerca""" universitas_in_trasformazione@mail.dm.unipi.it Subject: Re: [Universitas_in_trasformazione] Digest di Universitas_in_trasformazione, Volume 37, Numero 24
Francamente che le "nuove tecnoscienze come l'informatica e la genetica, hanno trascinato il mondo nella più grave crisi economico- finanziaria degli ultimi 80 anni." mi sembra davvero una opinione strampalata...
On 01/30/2012 11:04 AM, Walter Lacarbonara wrote:
Carissimi tutti,
per aumentare l'entropia del momento, leggete cosa scrivono i colleghi della materie umanistiche nella lettera-appello sottostante.
Sulle questioni concorsi e dintorni, mi limito a ridurre il mio punto di vista in una battuta: il nostro rimane nelle sue corde un paese irrimediabilmente piccolo, dinastico e familistico.
Il gruppo di accademici di Universitas Futura rimane una voce fuori dal coro e per questo anche poco incisiva. Se non si è impastati con il sistema, è difficile influirne le scelte. Molti colleghi "INFLUENTI" ci guardano con sorniona benevolenza (mentre noi ci battevamo per l'ANVUR e per la riforma più progressista possibile, gli stessi senza sprecarsi in alcuna iniziativa meritoria oggi si ritrovano a farne parte perchè garantisti... del sistema).
Buona lettura Walter Lacarbonara
L'Università che vogliamo
Un appello di docenti e ricercatori universitari al ministro Profumo e al Governo Monti
L'Università italiana sopravvive, difficoltosamente, in una condizione di disagio e di crescente emarginazione che ha pochi termini di confronto nella storia recente. Essa ha visto fortemente ridotte le risorse economiche per il suo funzionamento, molto prima che si manifestasse la crisi mondiale e malgrado le modeste dotazioni di partenza rispetto agli altri Paesi industrializzati. Tutti i saperi umanistici e buona parte delle scienze sociali sono da tempo sfavoriti, a beneficio di discipline che si immaginano più direttamente utili alla crescita economica, o genericamente al “Mercato”. Si tratta di una tendenza in atto da anni che ci accomuna all'Europa e a larga parte del mondo. A tutti gli insegnamenti viene richiesto di fornire un sapere utile, trasformabile in valore di mercato, altrimenti sono ritenuti economicamente non sostenibili. Perciò oggi si sta scatenando negli atenei la definizione dei “criteri di valutazione”, al fine di misurare la “produttività” scientifica degli studiosi, come si misura una qualsivoglia quantità calcolabile. Anche per questo, le Università europee sono sotto l'assedio quotidiano di un flusso continuo di disposizioni normative, che soffocano i docenti in pratiche quotidiane di interpretazioni e applicazioni quasi sempre di breve durata. Sempre minore è il tempo per gli studi e la ricerca, mentre la vita quotidiana di chi vive nelle Facoltà – docenti, studenti, personale amministrativo – è letteralmente soffocata da compiti organizzativi interni mutevoli, spesso di difficile comprensione, quasi sempre pleonastici. Noi crediamo che questo modello di Università europea, avviato con il cosiddetto “processo di Bologna” abbia rivelato il suo totale fallimento. Il numero dei laureati non è aumentato, le percentuali degli abbandoni nei primi anni sono rimaste pressoché identiche, diminuiscono le immatricolazioni, si fa sempre più ristretta l'autonomia universitaria, i saperi impartiti sono sempre più frammentati e tra di loro divisi, tecnicizzati, mai riconnessi a un progetto culturale, a un modello di società. Tutto ciò riguarda non solo il nesso saperi/mercato, ma anche il modello sociale, come è evidente alla luce dell'innalzamento delle tasse d'iscrizione, delle politiche di numero chiuso e della scelta di segmentare, alla luce di politiche classiste, il sistema universitario nazionale facendosi schermo del mito dell'eccellenza. Al fondo di questo fallimento c'è una esperienza storica recente che illumina sinistramente l'intero quadro europeo. È quello che possiamo chiamare il grandioso scacco americano. Gli USA, elaboratori del modello che l'UE ha voluto tardivamente imitare, sono il Paese che in assoluto ha investito di più nella formazione universitaria e nella ricerca, finalizzate ad accrescere la potenza economica. Ma a dispetto dell'immenso fiume di risorse e la finalizzazione spasmodica delle scienze alla produzione di brevetti e scoperte strumentali, i risultati sono stati irrisori. La grande ondata di nuovi posti di lavoro qualificati non si è verificata. Anzi, gli investimenti nel sapere hanno accompagnato un fenomeno dirompente: la distruzione della middle class. Per concludere con una apoteosi: gli USA, che hanno visto trionfare negli ultimi decenni nuove tecnoscienze come l'informatica e la genetica, hanno trascinato il mondo nella più grave crisi economico-finanziaria degli ultimi 80 anni. Questa lezione storica ci dice che il sapere tecnoscientifico, da sé, interamente finalizzato alla crescita economica e senza un progetto equo e solidale di società, privo della luce della cultura critica, è destinato a fallire. Inseguire gli USA su questa strada è aberrante. La crisi in cui versa il mondo rivela l'erroneità irrimediabile di una strategia da cui bisogna uscire al più presto. Per tale ragione, i firmatari del presente Manifesto indicano i punti programmatici cui dovrebbe ispirarsi un progetto di università che avvii la fuoriuscita dal modello liberistico di un'Europa ormai sull'orlo del collasso. Occorre al più presto abolire il fallimentare sistema del 3+2 dall'organizzazione degli studi e ripristinare i precedenti Corsi di Laurea, prevedendo lauree brevi per le Facoltà che vogliono organizzarli. Occorre abolire i crediti (i famigerati CFU) come criteri di valutazione degli esami. Il fatto che essi siano utilizzati anche nel resto d'Europa è una buona ragione per incominciare a scardinare il misero economicismo che è stato iniettato anche negli atenei del Vecchio Continente. Occorre ripensare i criteri di valutazione che riguardano i saperi umanistici. Noi crediamo giusto che l'Università resti pubblica, sostenuta da risorse pubbliche. Una condizione che implica anche un controllo – certamente mediato, ma serio, non propagandistico – del buon uso delle risorse provenienti dal contributo fiscale di tutti i cittadini. Ma tale controllo deve riguardare soprattutto i Consigli di Amministrazione degli Atenei, che devono diventare assolutamente trasparenti, con adeguata pubblicità, nelle loro scelte e nei loro bilanci. L’organo di autogoverno degli Atenei sul piano didattico e della ricerca non può essere comunque il CdA, ma il Senato Accademico, democraticamente eletto, in modo da rappresentare equamente tutte le discipline e tutte le figure di coloro che nell’Università lavorano e studiano. Occorre ripristinare la figura del ricercatore a tempo indeterminato abolita dalla legge Gelmini. Occorre immediatamente dar vita a un meccanismo di rapido reclutamento di nuovi ricercatori, con liste nazionali di idoneità, che tengano conto della produzione scientifica, dell’esperienza maturata nell’attività didattica, nell’attività gestionale, e nell’organizzazione culturale: le Facoltà dovranno poter scegliere all’interno di quelle liste e chiamare liberamente gli idonei. Ma è necessario al più presto bandire concorsi per la docenza in tutte le Facoltà. I docenti (compresi i ricercatori) italiani sono i più vecchi d'Europa e i numerosi pensionamenti hanno sguarnito gravemente tante Facoltà. Oggi si piangono ipocrite lacrime sulla disoccupazione della gioventù. Ma quale migliore occasione per il governo in carica di fornire risorse ai ricercatori senza lavoro, ai tanti giovani che passano dai dottorati ai master senza mai trovare un approdo, una istituzione in cui continuare studi e ricerche? È infine necessario spendere le energie dei docenti per riorganizzare i saperi, il loro studio e la loro trasmissione nelle Università. La complessità sempre più interrelata del mondo vivente e della società ci impone un diverso modo di studiare, ci chiede un dialogo tra le discipline, una organizzazione degli studi che non esalti la solitaria eccellenza individuale, ma la cooperazione fra campi diversi della conoscenza, così come la società ci chiede la cura collettiva dei beni comuni. 15 gennaio 2012 Piero Bevilacqua (Storia contemporanea, Sapienza, Roma) Angelo d’Orsi (Storia del pensiero politico, Università di Torino) Per aderire inviare una e-mail a: universitachevogliamo@gmail.com specificando disciplina e sede lavorativa
Seguono firme di molti docenti __________________________________________________ Walter Lacarbonara
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