Sperando di farvi cosa gradita, vi accludo il testo del mio intervento al Convegno LEFT "+sapere=sviluppo" tenutosi al Teatro Eliseo di Roma il 12 febbraio 2013.
Luciano Modica
RICOMINCIAMO DA TRE: AUTONOMIA, DEMOCRAZIA, QUALITÀ.
Due settimanali politici importanti (Espresso e Panorama) hanno commentato il recente documento del CUN sulle emergenze del nostro sistema universitario.
Scrive l’uno:
“Un corpaccione immenso: circa un milione e ottocentomila studenti, 57 mila docenti di ruolo, senza contare il fiume di dottorati e dottorandi che, comunque, insegnano. Sedi disseminate fin nel più piccolo paese di provincia, chissà perché. Una balena che divora ogni anno 10 miliardi di euro pubblici. E che appare sempre più incongrua, incapace di soddisfare i sogni dei giovani e di rispondere alle esigenze formative del Paese”.
Scrive l’altro:
“Ottimo. Non scherzo: questa cruda fotografia della realtà ci incoraggia ad affrontare la conclamata rovina dell’università italiana. Basta non ritoccare la fotografia raccontandoci le solite balle sulle tasse universitarie troppo alte o sull’importanza in sé della Cultura (con la “C” maiuscola, la Cultura avulsa dalla realtà che possono permettersi solo le classi agiate politically correct). Si può ripartire da qui, purché le analisi non siano dettate dalle baronie, dagli ideologi, da quelli che vivono e prosperano nell’università e che invece di curare l’interesse dei giovani si concentrano sul risiko delle cattedre acquisite attraverso “meriti” politici, familistici o sessuali. Anzitutto, l’alto afflusso di studenti non è un bene in sé. In un paese in cui la laurea ha ancora valore legale ed è quindi carta straccia, utile solo come requisito per essere assunti “su segnalazione” …, il calo delle matricole può significare che diminuisce il feticismo per il diploma. C’è crisi, ci saranno meno “perditempo” all’università”.
Forse è facile individuare dallo stile quale sia il brano del settimanale “di sinistra” e quale quello del settimanale “di destra”. Ma non dai contenuti, praticamente identici.
Siamo dunque gli ultimi giapponesi a combattere in difesa di quest’isola lontana e dimenticata che si chiama università italiana? Sì. Perché penso – vi assicuro senza un filo di retorica – che ne valga la pena. Perché pensiamo che lo meriti l’università nonostante tutti i suoi difetti, lo meriti il nostro Paese, lo meriti soprattutto il futuro dei nostri giovani.
Sgombro subito il campo da un punto: errori ne sono stati fatti tanti, anche dalle forze politiche a cui ci richiamiamo, anche dai nostri governi, anche da me personalmente quando ho ricoperto ruoli di responsabilità. Diciamoceli senza infingimenti, perché dagli errori si impara e perché, discutendone, si colgono meglio natura e anche limiti oggettivi degli errori compiuti. Ma non crogioliamoci nell’esame del passato, di ciò che poteva essere e forse non è stato come avremmo voluto. Tra due settimane la responsabilità di governo ricadrà probabilmente sulle spalle della coalizione di centro-sinistra. Non possiamo più permetterci errori. Forse è tardi, anzi sicuramente lo è, per costruire una proposta politica organica, ben studiata, forte e condivisa. Ma non è mai troppo tardi per ricominciare a fare politica, a fare politica universitaria.
Ricominciare dunque. Non da zero ma da tre. Il calembour di Massimo Troisi è più che risaputo ma ha ancora un senso: non buttiamo via l’esperienza del passato, non cancelliamone i risultati ma solo gli errori. Siamo stanchi di riforme epocali che poi non si rivelano tali, ma non crediamo affatto che ci si debba rifugiare nel rimpianto di un passato solo ipoteticamente aureo. All’università servono saggezza, esperienza, capacità di innovare e di rinnovare: per migliorare continuamente e per riguadagnare la speranza nel futuro e la fiducia dei cittadini. E’ il compito arduo ma necessario di una politica schiettamente riformista. Per salvare le cose che si amano – scrisse Vittorio Foa – occorre rinnovarle continuamente.
Ricominciamo quindi da tre. Propongo che si ricominci da tre princìpi strategici: l’autonomia, la democrazia, la qualità. Con una visione strategica è più facile ed efficace costruire programmi operativi. Senza princìpi l’azione di governo diventa effimera, incerta, contraddittoria.
Innanzitutto non cancelliamo l’autonomia delle università. Non solo per il dettato costituzionale ma perché siamo convinti che il sistema universitario respira, sperimenta, cresce, e vivaddio si differenzia anche, solo con quella forma particolare di fiducia dello Stato nelle sue articolazioni che si chiama autonomia.
E’ inutile negare che all’ombra dell’autonomia sono stati compiuti veri misfatti, ma è rovinosa per l’università la posizione, molto comune in Italia, che assegna alla norma ex ante più che alla valutazione ex post, con relativi incentivi e sanzioni, il compito di evitare gli errori. Nella flessibilità e nella prontezza delle risposte l’università ha le sue uniche chances di sopravvivere e di crescere nel mondo di oggi, di rimanere al passo con i tempi e con le esigenze degli studenti e della ricerca. L’iper-normazione a cui ci siamo dovuti abituare uccide proprio la flessibilità e la prontezza.
Con una vera autonomia le università si differenzierebbero naturalmente e liberamente, scegliendo i punti di forza e le strategie di sviluppo, competendo per gli studenti, i professori, le ricerche, i servizi più adatti ai propri obiettivi. Invece bisogna combattere ogni gerarchia o classificazione predefinita tra le università, ogni graduatoria di merito di significato esclusivamente mediatico e del tutto inutile per l’unico fine che conta: migliorare risultati e rendimenti di ciascun ateneo. Con tutto il rispetto per l’attività sportiva, i criteri dello sport si adattano male alla formazione e alla ricerca. Il sapere non è una gara olimpica.
Differenziarsi è un concetto difficile in Italia. E’ quasi paradossale che il Paese più campanilista che ci sia ritiene invece che l’uniformità sia la principale forma della qualità. E’ curioso che gli stessi propugnatori, cosiddetti liberali, della classificazione in research o teaching university la vogliono stabilita per legge o per indiscutibile decisione di qualche agenzia diretta da presunti saggi. Forse perché sanno che non sarebbe mai frutto di una scelta autonoma, almeno in Italia dove ricerca e didattica sono caratteristiche inscindibili e fondanti dell’università ma anche quasi ovunque in Europa. Lo stesso capita per il disinformato e interminabile dibattito sul valore legale dei titoli di studio universitari: che i contenuti dei titoli siano ormai differenziati per università e soprattutto per singolo laureato è indubbio; ma si pretende di nuovo un timbro dello Stato sulla differenziazione, ovvero un nuovo e accresciuto valore legale.
La cultura dell’autonomia è dunque difficile e, soprattutto, sconta oggi i troppi errori commessi alla sua ombra. Ma pensare di mettere le briglie all’università, nello stile di Gelmini e di tanti altri, può piacere ai benpensanti, che non mancano nemmeno all’interno degli atenei, ma è fonte sicura di deperimento, di fuga dalle responsabilità, di quelle continue tecniche elusive di cui siamo maestri. Certo non penso all’autonomia come al far west. Variamo una legge quadro leggera e intelligente sull’autonomia, che abroghi centinaia di commi e soprattutto il delirio iper-normativo della legge Gelmini. Una legge quadro era prevista già dalla legge Ruberti del 1989 ma non ha mai visto la luce. Nel maggio 2009 gli interi gruppi parlamentari del PD della Camera e del Senato presentarono una proposta di legge al riguardo, mai esaminata dalle commissioni parlamentari. E’ una proposta che può essere criticata, rivoluzionata e anche abbandonata, ma era frutto di un’analisi che può ancora essere utile come base di partenza.
Penso che vi sia un tema particolarmente urgente: il governo del sistema universitario. Se per il governo delle singole università occorre cancellare senza pietà gli eccessi normativi della legge Gelmini, il governo del sistema ha invece bisogno di un serio ripensamento. Tra MIUR, CUN, CRUI, ANVUR, GEV, CNGR, CEPR e via dicendo si è creato un guazzabuglio di competenze e responsabilità, di organi l’un contro l’altro armati. Da ciò dipende certamente una parte dei problemi del sistema.
Del governo del sistema fa parte la valutazione della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca. Dedichiamole un’attenzione specifica partendo da un punto fondamentale: è contrario al buon senso e alla logica che chi sia incaricato di valutare la qualità dei risultati sia lo stesso che stabilisce o contribuisce a stabilire le regole del gioco. La politica, il governo, l’amministrazione, l’agenzia di valutazione facciano ciascuno il loro compito, tutti importanti. Ma le commistioni indebite confondono il sistema e lo sovraccaricano di tensioni e di compiti burocratici. Non ne sentiamo proprio il bisogno. Piuttosto vi è il rischio che la stessa attività di valutazione finisca vittima di questa confusione e la si abbandoni secondo il fin troppo citato proverbio inglese sul bambino buttato via con l’acqua sporca.
Con una carenza di autonomia si registra oggi anche una carenza di democrazia. In questo confuso panorama di norme e di prassi si è verificato anche un parziale appannamento degli organi democratici e un affermarsi degli organi “aristocratici” di nomina ministeriale, fino addirittura ad arrivare a teorizzare pericolosamente un limite di rappresentatività e operatività da parte di chi sia eletto a governare il sistema. La competenza, la capacità di conoscere e di rappresentare il sistema, non sono assolutamente in contraddizione con una selezione democratica. Semmai il contrario: è nei sistemi complessi che la democrazia offre le migliori garanzie ed è indubbio che il sistema universitario ha al suo interno l’irriducibile complessità della mappa attuale dei saperi e insieme l’altrettanto irriducibile complessità delle componenti universitarie, in quanto la didattica e la ricerca avanzate devono mettere in primo piano le capacità di inventiva, di sfida, di rigore intellettuale dei singoli, indipendentemente dalla posizione che occupano nel processo di creazione e trasmissione della conoscenza. La democrazia diventa allora una garanzia dell’università e della ricerca in quanto tali. Del resto, alle soglie dell’età moderna, fu nelle università (e nei conventi) che si sperimentarono le prime forme di potere legittimato da procedure democratiche all’interno delle rispettive comunità.
In nome di un generico efficientismo, sono stati sacrificati molti spazi di democrazia anche all’interno degli atenei e persino nei dipartimenti. La democrazia è difficile ma insostituibile, potremmo dire parafrasando Churchill. Non so e non mi interessa se in un’impresa la democrazia è contraria al buon andamento dell’attività. Ma sono certo che un’università o un ente di ricerca non sono imprese ed è l’assenza o la carenza di democrazia che sono contrarie, in fondo, al buon andamento dei loro risultati.
Come ci insegnano i costituzionalisti la democrazia come sistema di governo ha assoluta necessità di un corretto bilanciamento dei poteri. Nel sistema universitario e negli atenei questo sta mancando, forse perché nessuno ha ancora studiato a fondo e messo alla prova una governance universitaria, locale e nazionale, che presenti un ragionevole e saggio grado di bilanciamento dei poteri.
Infine la qualità. Abbiamo bisogno estremo di un sistema universitario e di ricerca di qualità. Purtroppo in italiano la parola qualità finisce istintivamente col far rima, a parte il suono, con la parola eccellenza. Come se la qualità si potesse raggiungere solo perseguendo l’eccellenza. E’ vero esattamente il contrario, nonostante ciò che afferma la martellante campagna mediatica condotta da ben individuati ideologi. E’ l’eccellenza, alla quale nessuno è contrario, che si può raggiungere solo perseguendo la qualità. Una qualità diffusa, un ampio e vitale brodo di cultura dove di tanto in tanto nascono geni ma ogni giorno crescono persone e ricerche serie e importanti, l’ossatura vera e solida di un Paese che cresce e innova.
La qualità è una cultura più che un obiettivo. Quality is a right, not a privilege, recitava un antico slogan di una casa automobilistica. Non a caso si parla di garanzia o di assicurazione della qualità, qualcosa che indica l’impegno continuo nel tempo, non la bolla mediatica ed episodica dell’evento. Un’università di qualità è quella in cui ogni studente e ogni docente è messo in grado di rendere al massimo delle proprie possibilità e gliene si chiede conto, non quella in cui solo a pochi selezionati studenti o docenti eccellenti viene concesso di studiare e lavorare. Il merito sta da una parte, la meritocrazia da un’altra.
Alla ricerca e all’università italiane servono investimenti finanziari pubblici e privati. Ma servono anche investimenti in autonomia, in democrazia, in qualità. Senza di questi ogni sviluppo sarà illusorio.