Qualche giorno fa, mentre impazzava sui giornali la questione dell'aumento delle tasse universitarie per gli studenti fuori corso portata alla ribalta dal decreto-legge "spending review"n. 95 del 6 luglio 2012 (oggi convertito in legge), ho scritto un pezzettino sul tema.
Il fenomeno dell'allungamento degli studi universitari è certamente negativo e va contrastato. Ma da qui a pensare che sia una caratteristica esclusivamente italiana o che sia il problema cruciale delle nostre università ce ne corre. Purtroppo però è questa l'opinione che va per la maggiore tra gli editorialisti di punta e addirittura anche tra molti che siedono al Governo o fanno politica universitaria in Parlamento e nei partiti.
Il tema è molto complesso e meriterebbe ben altre analisi ma mi fa comunque piacere inviarvi il mio testo, che è apparso su ROARS (http://www.roars.it/online/?p=10774). Dopo averlo scritto mi sono accorto che anche Giuseppe De Nicolao era intervenuto sullo stesso tema su ROARS (http://www.roars.it/online/?p=7625). Segnalo pure il recente intervento di Paola Potestio http://www.roars.it/online/?p=10714.
Colgo l'occasione per augurare a tutti un periodo sereno di vacanze estive.
Luciano Modica
Giustizia è fatta. Contro gli studenti universitari fuori corso, anomalia tutta italiana secondo i sedicenti esperti dei grandi media italiani, ai quali il governo ha aumentato le tasse pur mitigando la frettolosa e draconiana versione iniziale della cosiddetta spending review. Con norme ancora più frettolose e intricate da far la gioia dei tanti azzeccagarbugli nostrani, senza alcun beneficio diretto per le disastrate casse statali e intervenendo a gamba tesa in un tema che da vent'anni era lasciato all'autonomia degli atenei entro un limite budgetario giustamente fissato dalla legge (ma purtroppo non rispettato né dallo Stato né da molte università).
Rinviando un'analisi della nuova normativa, vorrei trattare un solo punto, quello della presunta anomalia italiana dei fuori corso. E' un'altra delle affermazioni che sono da tempo entrate a far parte della grancassa mediatica montata contro le università statali italiane senza che si riuscisse a far prevalere un'analisi più documentata e precisa della realtà.
Prendiamo come esempio il recentissimo articolo di Marc Perry (http://www.nytimes.com/2012/07/22/education/edlife/colleges-awakening-to-the...) uscito il 18 luglio scorso nell'ambito di una collaborazione editoriale tra il New York Times e il Chronicle of Higher Education, cioè tra un grande quotidiano statunitense e un'autorevole "sorgente giornaliera di informazioni e opinioni per professori, amministratori e altre persone interessate ai temi accademici". En passant, in Italia non c'è niente di simile, purtroppo.
Scrive Perry: "In media, solo il 31% degli studenti delle università pubbliche (statunitensi) consegue la laurea (il bachelor) nei quattro anni previsti e solo il 56% la consegue in sei anni. Queste statistiche hanno attirato sempre maggiore attenzione poiché genitori e politici chiedono alle università di rispondere responsabilmente dei loro risultati. Lo stato del Tennessee, ad esempio, alloca i suoi finanziamenti alle università misurando quanto efficace sia l'azione di un ateneo nel laureare i suoi studenti".
Secondo lo stile anglosassone in poche parole apprendiamo molte cose. Ad esempio che il 69% degli studenti americani va fuori corso, quindi una percentuale maggiore che in Italia. Che il 44% impiega addirittura sette o più anni invece dei quattro previsti. Che i politici, invece che pensare di aumentare loro le tasse, nel Paese che nella vulgata sembrerebbe il più adatto a queste soluzioni mercatistiche, studiano le statistiche e ne chiedono conto alle università e ai professori, non agli studenti. Che il Tennessee è arrivato alla soluzione che è stata utilizzata in Italia per quasi quindici anni, prima che il nuovo vento della cosiddetta meritocrazia la travolgesse, per fortuna ancora solo in parte.
In Italia non mancano gli esperti del mondo universitario ma difficilmente la politica li ascolta. Ancor più difficilmente quando il ministro è a sua volta un professore universitario. Almalaurea (http://www.almalaurea.it/) fornisce da alcuni lustri i dati statistici fondamentali sulle carriere studentesche, in particolare sui tempi di laurea, anche in dipendenza dal fenomeno ormai pervasivo di chi lavora mentre studia all'università. Ma l'equazione fuori corso = bamboccioni domina quasi incontrastata sulla stampa e nei commenti dei benpensanti. Già molti anni fa alcuni atenei avevano tentato di accelerare i tempi di laurea aumentando le tasse ma fu un solenne fiasco. Altri tentarono invece la strada di premi in denaro, equivalenti quindi a riduzioni delle tasse, a chi si laureava in corso e si registrò qualche buon risultato. Nel decreto Zecchino n. 509 del 1999, che introdusse i tre livelli di laurea, e poi nel decreto Moratti n. 270 del 2004 le università erano obbligate a disciplinare le modalità formative per gli studenti part-time. Ma le università, nella quasi totalità, non se ne sono date per inteso: nel nostro Paese la figura dello studente-lavoratore non è stata mai presa in seria considerazione nonostante che sia apparsa nella legge oltre vent'anni fa, nella legge Ruberti n. 390 del 1991.
Pochi hanno osservato - tra di loro Federica Laudisa (http://www.roars.it/online/?p=10666) - che già la normativa attuale (tasse usualmente indifferenziate tra studenti in corso e fuori corso) genera un disincentivo economico ad allungare troppo i tempi di studio: infatti lo stesso diploma di laurea costa di più a chi consegue il titolo fuori corso, in proporzione al ritardo maturato e pur senza che le università debbano sopportare forti costi aggiuntivi. Come usava commentare, un po' cinicamente, un autorevole rettore del secolo scorso: "Non toglieteci i fuoricorso, come faremmo a far quadrare i bilanci senza di loro?". Certo, si può aumentare l'effetto disincentivante aumentando ancora le tasse. Ma l'effetto più probabile è che molti studenti saranno indotti a rinunciare alla laurea. L'ultimo posto occupato dall'Italia nei paesi OCSE dell'Unione Europea per percentuale di laureati sulla popolazione attiva - persino nella fascia di età tra 25 e 34 anni - sarà ancora garantito per i decenni a venire. Con buona pace di tanti vacui discorsi sulla crescita in un'economia/società della conoscenza.
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