Cari colleghi,
il mio intervento è solo a margine di un dibattito che vede prevalentemente colleghi scienziati (essendo io invece uno che lavora in un dipartimento di filosofia); di qui una scarsa propensione a intervenire, determinata anche dalla complessità delle questioni sollevate e dal fatto che, nonostante tutto, a mio avviso, manca ancora un’ adeguata convergenza su un insieme di punti ben definiti (trovo utili interventi e tentativi di sintesi, per es. da parte di Barbieri e di Valdinoci, o la riscrittura del documento fatta da Lusiani qualche tempo fa, sia pure con diverse sfumature).
Comunque, sul documento UNI. RA di Procesi, mi restringo a un solo commento: dovremmo scambiare i punti (1) e (2) e sottolineare con forza la proposta della centralità del dipartimento.
Questa ha il vantaggio di connettersi naturalmente con i punti cruciali della valutazione e della competizione, e di mantenere in una posizione prominente il ruolo della ricerca nell’università: si fa ricerca nell’università perché essa si impernia sui dipartimenti che sono prima di tutto comunità di ricerca scientifica. Le politiche attuali e quella pregresse, diciamo dall’istituzione della cosiddetta autonomia dei primi anni novanta, si muovono nella direzione di una inesorabile (e ora anche pericolosamnte veloce) espulsione della ricerca dagli atenei.
Da qui in poi, scusatemi se ribadisco cose abbastanza ovvie (a modo mio). La centralità del dipartimento deve esplicitarsi:
(i) nella promozione e organizzazione della ricerca; (ii) nella direzione delle attività di formazione alla ricerca (dottorato); (iii) nel reclutamento sia sul breve periodo (posti post-doc, ricercatori a tempo), sia sul lungo periodo (posti destinati a divenire di ruolo dopo adeguata verifica); (iv) nel fornire i docenti per i due cicli standard della didattica; (v) nell’implementazione delle procedure di avanzamento interne (da tenere assolutamente distinte da quelle di reclutamento).
Sul punto (ii) : si propone l’adozione di una nuova prassi di reclutamento, che dovrebbe seguire di massima la routine che si segue all’estero, o una sua ragionevole variante. Per esempio: (1) il dipartimento elegge una commissione (dai 3 ai 5 membri al massimo; sarei CONTRARIO a identificare il Consiglio di Dipartimento con la commissione) che sarà composta da membri del dipartimento; (2) la commissione si avvale di ESPERTI ESTERNI e di livello INTERNAZIONALE, che vagliano i titoli dei candidati.
Sottolineo che gli esperti debbono lavorare come veri e propri referees, di norma i nomi sono tenuti segreti; al più i concorrenti indicano una rosa di competenti a giudicare le loro ricerche, come “aiuto” alla commissione.
Dopo una prima fase, si estrae un numero ristretto di candidati; nella seconda fase, i candidati del gruppo ristretto sono tenuti a dare (2?) talks pubblici (seminario di ricerca+conferenza per una general audience o lezione in senso proprio). La commissione, tenendo presente la valutazione dei titoli scientifici e i pareri dei referees esterni, fa la sua scelta.
Sottolineo che il processo di selezione avrà così anche un MOMENTO PUBBLICO E DI RESPONSABILIZZAZIONE del dipartimento nella sua interezza e dell’università che bandisce (vedi quel che ricorda Battiston a proposito di decisioni su una tenure track in un dipartimento US). Dato che un minimo di condivisione di competenze c’è in un dipartimento, questo avrà il vantaggio di far conoscere meglio i potenziali colleghi e le loro capacità, e sarà più difficile scegliere di nascosto delle persono di livello inadeguato e poi ritrovarsele accanto perché il collega intrallazzone ha fatto le sue “manovre politiche nazionali”, senza che si potesse fare alcunché.
La procedura lascerà posto agli arbitri locali? Ma questo è il costo dell’autonomia e qui entra il gioco il problema della VALUTAZIONE. Se c’è una valutazione seria del dipartimento e dei suoi gruppi di ricerca (-> Agenzia nazionale ben fatta), che condiziona la concessione di fondi e in qualche misura anche gli stipendi, il meccanismo dovrebbe limitare il perpetuarsi delle solite distorsioni.
Commenti integrativi sparsi.
(A) Il problema dell’abolizione delle facoltà: sono per abolirle, ma l’organizzazione della didattica sui due cicli (come ora) è complessa, e richiede organismi autonomi, come i corsi di Laurea, di coordinamento (la didattica richiede non di rado più dipartimenti). Il ruolo e l’eventuale recupero delle facoltà va visto nell’ambito della governance generale dell’ateneo. Per es. potrebbe essere questo: le facoltà riuniscono i direttori dei dipartimenti e i presidenti di cC.d.L. di una data macro-area (per es discipline umanistiche, o le scienze matematiche, fisiche e naturali, etc.), mandano una loro rappresentanza ristretta in un senato accademico. Qui è importante vedere quale ruolo dare al consiglio di amministrazione e al senato. O cambiare del tutto la struttura della governance. Ma mi fermo, perché mi mancano le esperienze e le conoscenze giuridico amministrative per dire qualcosa di sensato e di preciso.
(B) L'università, però, non fa solo ricerca. In questo senso, qualche giorno fa, Cosmelli ha sollevato una questione a mio avviso importante.
"La valutazione è essenziale, sia per l'attività scientifica del singolo, che per la didattica dell'Università in generale. Ma per valutare la didattica è necessario partire da una valutazione uniforme ed oggettiva delle conoscenze di ingresso degli studenti, altrimenti la valutazione è distorta. Si propone la creazione di una agenzia di valutazione nazionale." Sono assolutamente d’accordo, oltre alla valutazione della ricerca e relativa agenzia, mi sembra importantissimo. Non c’è più la prova nazionale di garanzia (persa l’uniformità della vecchia maturità classica o scientifica). Ed è giusto difendersi dall’accusa che il numero di abbandoni sia tutto imputabile ad una cattiva didattica universitaria. L’attacco all’università è basato anche in buona parte sulla cosiddetta non-produttività (abbandoni, tempi lunghi). Ma nessuno dice mai che le migliori università (americane per es.) si scelgono i loro studenti fra coloro che danno garanzie di preparazione buona nelle discipline di base; da noi, ciò accade solo in qualche caso raro.
(C) Essendo pessimista, mi chiedo se realisticamente e in che misura le indicazioni in positivo che rimangono stabili nel presente dibattito (valutazione e competizione, ruolo dei dipartimenti e della ricerca nell’università) abbiano chances di essere in qualche forma accolte (e non stravolte). Pensiamo al reclutamento. I metodi che vengono qui prefigurati troveranno molti nemici e ostacoli di tipo burocratico-legislativo. Non sarebbe a mio avviso sbagliato pensare anche a mosse di difesa. Nel caso dei concorsi locali, si chieda solo una graduatoria in ordine di merito con il vincitore. Se si torna a una alternativa centralistica in cui si fa una selezione nazionale, due sono i punti essenziali: la regolarità della cadenza concorsuale, la qualità della commissione, che va scelta individuando commissari con criteri molto stringenti scientificamente (si eviti la buffonata dei sorteggi).
Un inciso: nessuno ha sottolineato, mi pare, che di fatto una sorta di tenure track c’è anche da noi da tempo per le tre fasce. Che cosa sono i giudizi di conferma dopo il triennio, se fossero presi sul serio? Ogni tanto, sembra che boccino qualcuno, ma di solito è solo un seccante inghippo burocratico. E se si introducesse qualche meccanismo per renderli efficaci davvero?
Chiusa moralistica, ma essenziale: alla fine, non va dimenticato che è essenziale l’etica del gruppo disciplinare e della tradizione scientifica che sta dietro il gruppo disciplinare; in certi casi questa è molto alta e dà garanzie, in qualunque sistema normativo si trovi ad agire.
Cordiali saluti, Andrea Cantini Dipartimento di Filosofia Università di Firenze
Caro Andrea,
un solo commento su un solo punto del tuo interessante intervento
2009/1/17 cantini@philos.unifi.it:
Cari colleghi,
Ma nessuno dice mai che le migliori università (americane per es.) si scelgono i loro studenti fra coloro che danno garanzie di preparazione buona nelle discipline di base; da noi, ciò accade solo in qualche caso raro.
Per quanto capisco io le universita' USA non rifiutano nessuno studente, a patto che paghi. I test di ingresso servono solamente per assegnare le borse di studio, sia nelle universita' statali come Berkey che quelle private come Stanford. Certamente chi paga rette elevate perche' non era tra i migliori nei test avra incentivi maggiori che in Italia a impegnarsi sul serio. Peraltro le tasse delle univ. statali USA per i residenti dello Stato non sono poi elevate in rapporto ai salari medi USA. Aggiungo a questo che gli USA nel rapporto OCSE 2008 risultano secondi dopo l'Italia per frazione di abbandoni, dell'ordine del 50%. E gli abbandoni sono superiori almeno in California negli Atenei i cui studenti sono poco selezionati.
Quindi sostanzialmente si verifica quanto scrivi, dopo aver incluso alcuni dettagli.
I dati degli USA dicono che la partecipazione dei giovani supera il 60% e che la meta' circa, il 30%, da molti anni, completa la laurea. In Italia in anni recenti si e' laureato il 17% circa, e in passato significativamente meno. I dati dopo il 3+2 sono piu' difficili da analizzare a causa delle sovrapposizioni, ci sono state critiche riguardo a doppi conteggi. Quindi sostanzialmente si verifica quanto scrivi, tenendo conto di alcuni dettagli.
Cordialmente, -- Alberto Lusiani ricercatore di Fisica SNS
universitas_in_trasformazione@lists.dm.unipi.it